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Obesità infantile: un rischio per la salute in età adulta
Rappresenta un problema di salute pubblica a livello globale tanto da spingere i vari Paesi ad investire molte risorse economiche ed umane per contrastare questo fenomeno che ha assunto livelli epidemici.
Purtoppo l’Italia, nostante l’impegno finora profuso, continua a detenere la maglia nera nella classifica dei peggiori Paesi Europei per Obesità infantile.
Valutazioni scientifiche attestano che se non si realizzerà in tempi brevi un’efficace lotta all’ obesità infantile, il rischio sarà che per la prima volta negli ultimi cento anni le nuove generazioni di bambini vivranno meno dei loro genitori.
E’ importante non abbassare la guardia rispetto al problema del peso in età evolutiva perchè un bambino obeso ha grandi probabilità di diventare un adulto obeso, specie se l’obesità è presente in entrambi i genitori.
Il ruolo della famiglia è fondamentale nel bambino obeso
Un dato inquietante è legato alla scarsa consapevolezza ed obbiettività con cui i genitori giudicano i propri figli riguardo all ‚eccesso di peso. Infatti secondo le rilevazioni di Okkio alla salute ( Il sistema di sorveglianza per il controllo e la sorveglianza delle malattie promosso e finanziato dal ministero della Salute) il 38% delle mamme con bambini obesi o sovrappeso pensa che il proprio figlio abbia un peso adeguato o addirittura che sia sottopeso
Le mamme tendono a sottostimare la quantità di cibo assunta dai loro figli; solo il 30% pensa che il proprio bambino mangi troppo.
L’uso eccessivo di bevande zuccherate, lo scarso apporto di frutta e verdura, la poca attività fisica ed il frequente uso di videogiochi e TV contribuiscono a mantenere i numeri dell’obesità e del sovrappeso ancora molto elevati.
Dobbiamo impegnarci ad insegnare ai nostri figli non solo a mangiare bene e muoversi di più ma anche a utilizzare bene il proprio temo libero, a costruire relazioni interpersonali positive e a saper riconoscere ed accettare le emozioni
Quando un bambino può dirsi obeso o sovrappeso
L’obesità è una condizione medica caratterizzata da un eccessivo accumulo di grasso corporeo in grado di causare effetti negativi sulla salute e la conseguente riduzione dell’aspettativa di vita.
La distinzione tra un bambino obeso o semplicemente „cicciotello”o „robusto” è molto importante e non può essere effettuata basandosi solo su una percezione soggettiva.
Per verificare l’obesità da un punto di vista clinico si può utilizzare l’Indice di massa corporea (BMI) che si calcola con la stessa formula usata per gli adulti ( BMI= peso/altezza² ), ma la valutazione deve tener conto anche di età e sesso, perchè la quantità di grasso differisce in modo significativo in funzione dei suddetti parametri; per l’interpetazione ci si avvale di Tabelle specifiche (tabelle dei percentili ).
Niente pancia fin da bambini perchè il grasso accumulato nell’addome è quello più dannoso
Per conoscere, seppure approssimativamente, se un bambino presenta un eccesso di grasso addominale ci si può avvalere del rapporto girovita -altezza. La tecnica è semplice:basta dividere la misura della circonferenza vita per la statura. Un risultato uguale o superiore a 0,5 rappresenta un campanello d’allarme : significa che un bel pò di ciccia si è accumulata nell’addome, indipendentemente dal peso segnato sulla bilancia.
Se il valore del rapporto girovita/altezza indica che il bimbo è sulla strada della pre-obesità è necessario adottare un’alimentazione più sana unitamente all’adozione di un’attività fisica aerobica di almeno 10 MET (camminata veloce, corsa leggera) che consente di ridurre il grasso viscereale. La riduzione di 1 cm di circonferenza vita corrisponde ad una riduzione del 4% del grasso viscerale. Quindi 10 cm in meno sulla vita corrispondono a – 40% di grasso viscerale.
L’Obesità viscerale è da scongiurare perchè produce sostanze in grado di attivare dei processi infiammatori che causano la formazione di placche nelle arterie e predispone a pressione alta, resistenza insulinica, alterazioni dei grassi nel sangue (dislipidemie, trigliceridi alti, colesterolo totale e LDL alti , HDL basso). Inoltre l’espansione delle cellule adipose provoca una riduzione della quantità di ossigeno nei tessuti ed una modifica dei fattori protettivi locali. Quanto più a lungo l’organismo è esposto a fattori di rischio tanto maggiore sarà la probalità che si manifesti la malattia: ecco perchè non è bene essere obesi fin da bambini.
Combattere sovrappeso e obesità infantile è perciò un obiettivo molto importante di salute pubblica, per scongiurare l’arrivo di una generazione di giovani adulti malati cronici.
DIETA DASH
DASH la dieta amica del cuore che fa dimagrire.
Dash sta per Dietary Approach to Stop Hypertension, ovvero approccio dietetico per contrastare l’ipertensione ed è il programma alimentare del momento. Elaborata negli anni Novanta negli Stati Uniti, è stata eletta per sette anni consecutivi come migliore dieta dalla rivista Usa News & World Report, con la benedizione dei cardiologi (del National Heart, Lung, and Blood Institute) e di numerosi studi scientifici.
In cosa consiste questo regime?
Prevede un’alimentazione povera di sale, grassi saturi, colesterolo e ricca invece di potassio, magnesio, vitamina D e vitamina E, proteine vegetali, omega-3 e fibre.
La dieta DASH, progettata inizialmente per aiutare a trattare o prevenire l’ipertensione.
è anche in linea con le raccomandazioni alimentari per prevenire l’osteoporosi, il cancro, le malattie cardiache , l’ictus e il diabete.
Seguendo la dieta DASH è possibile ridurre la pressione del sangue di alcuni punti in poche settimane grazie al ridotto introito di sodio.
Il programma standard della dieta DASH consiglia di non mangiare più di 2,300 mg di sodio al giorno ( pari a 1 cucchiaino da the ) in linea con le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
IL SALE? Poco è meglio e solo iodato!
Guadagnare salute riducendo il sale
L’eccessivo consumo giornaliero di sale fa male al cuore , vasi sanguigni, reni e cervello. Lo sostiene una ricerca dell’università del Delaware negli Stati Uniti che ha indagato gli effetti del consumo di sale sull’organismo al di là dei noti effetti sulla pressione sanguigna. Anche chi ha la fortuna di mangiare cibi salati senza subire sbalzi di pressione, farebbe bene a limitarne il consumo per proteggere la propria salute.
La riduzione progressiva del consumo di sale ha un effetto positivo sulla salute:
• riduce la pressione arteriosa
• migliora la funzionalità di cuore,vasi sanguigni e rene
• aumenta la resistenza delle ossa
In Italia il consumo medio di sale è di circa 10-15 giornalieri, cioè 3-4 volte superiore a quanto raccomandato dall’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS).
L’introito giornaliero raccomandato dall’OMS è inferiore a 5 grammi.
Ridurre il sale si può:
– diminuendo progressivamente l’uso di sale sia a tavola che in cucina,
– limitando l’uso di altri condimenti contenenti sodio (dadi da brodo, maionese , salse, ecc.); -riducendo il consumo di alimenti trasformati ricchi di sale (snacks salati, patatine in sacchetto, alcuni salumi , e formaggi, cibi in scatola)
– preferendo linee di prodotti a basso contenuto di sale
-usando spezie , erbe aromatiche, succo di limone o aceto per esaltare il sapore dei cibi;
-leggendo con attenzione le etichette riportate sui prodotti.
LE PRINCIPALI FONTI DI SODIO
1. Il sodio contenuto naturalmente negli alimenti (frutta, verdura, acqua,carne, ecc.) rappresenta appena il 10% dell’apporto totale.
2. Il sodio aggiunto durante la cottura dei cibi o a tavola rappresenta in media il 35% dell’assunzione totale.
3. il sodio contenuto nei prodotti trasformati sia artigianali che industriali e nei cibi consumati fuori casa è pari quindi a circa il 55% del totale.
Quando il sapore inganna: quel salato non salato
Ci sono cibi che contengono discrete quantità di sodio, anche se non sembrano salati.
È il caso per esempio di alcuni tipi di cereali per la colazione o di biscotti: questo può accadere perché il sodio presente viene nascosto alle nostre papille gustative dallo zucchero che figura fra gli ingredienti. Il consiglio è dunque quello di abituarsi a consultare l’etichetta dei cibi che consumiamo.
Il sodio e il sale nelle etichette alimentari
Leggere l’etichetta è fondamentale per tenere sotto controllo la quantità di sale (e di sodio) che si porta in tavola.
Con l’entrata in vigore del nuovo Regolamento UE 1169/2011 sulle etichette deve comparire il contenuto di sale degli alimenti e non quello di sodio ( ma con un semplice calcolo è possibile conoscere anche il contenuto di sodio).
A prima vista potrebbe sembrare un controsenso, ma in realtà c’è una ragione per questa scelta: la chiarezza per i consumatori.
Infatti nel testo ufficiale si legge “Poiché uno degli obiettivi del presente regolamento è di fornire al consumatore finale le basi per effettuare scelte consapevoli, è importante assicurare al riguardo che il consumatore finale comprenda facilmente le informazioni fornite sulle etichette. È quindi opportuno che l’etichetta rechi il termine «sale» invece del termine corrispondente della sostanza nutritiva «sodio»”.
Nella vita quotidiana infatti si parla di “un pizzico di sale” e non di “qualche milligrammo di sodio” e di alimenti “salati” piuttosto che di “ricchi di sodio”.
Inoltre non è poi così difficile risalire dal contenuto di sale riportato in etichetta a quello di sodio: basta dividere il numero per 2,5.
Così, per esempio, un alimento che contiene 2 grammi di sale conterrà 0,8 grammi di sodio.
Come si legge l’etichetta?
Facciamo chiarezza sul significato di alcune diciture che compaiono sulle confezioni dei prodotti alimentari riguardo al contenuto di sale, secondo quanto stabilito dal Regolamento CE n. 1924/06.
A basso contenuto di sodio/sale: il prodotto contiene non più di 0,12 g
di sodio, o un valore equivalente di sale, per 100 g o 100 ml.
A bassissimo contenuto di sodio/sale: il prodotto contiene non più di 0,04 g di sodio, o un valore equivalente di sale, per 100 g o 100 ml. Tale indicazione non è utilizzata per le acque minerali naturali o per altre acque.
Senza sodio o senza sale. Il prodotto contiene non più di 0,005 g di sodio, o un valore equivalente di sale, per 100 g.
A tasso ridotto di [nome della sostanza nutritiva]. La riduzione del contenuto è pari ad almeno il 30 % rispetto a un prodotto simile.
In teoria tutto bene, ma resta un problema non certo trascurabile nella vita quotidiana. Infatti, come ricordano gli esperti della Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU), il problema del calcolo della quantità di sale resta ancora importante per i prodotti che vengono venduti in porzioni al banco: per formaggi, affettati e pane acquistati con queste modalità è più difficile controllare quanto sodio o sale si porta a casa.
DIETA PROTEICA
DIETA PROTEICA: dimagrimento veloce e mirato ( da 6 a 9 kg in un mese) con risultati duraturi.
Per queste caratteristiche la dieta proteica è conosciuta anche con l’appellativo di “liposuzione alimentare”: ha un effetto sorprendente nel combattere le cosiddette adiposità localizzate, in particolare la zona gluteo-femorale della donna e l’addome del maschio, aree in cui il tessuto adiposo presenta un metabolismo diverso rispetto alle altre parti dell’organismo. Per tale motivo costituisce un valido alleato, con ruolo sinergico e complementare, per i principali trattamenti di medicina e chirurgia estetica finalizzati al riequilibrio della silhouette.
La dieta proteica non è una „moda” dell’ultimo momento ma un programma dietetico nato più di 30 anni fa , con solide basi scientifiche ed una vasta bibliografia internazionale, prescritta nella terapia del sovrappeso e obesità. Si caratterizza per l’assenza di fame e stanchezza da parte del paziente , per la rapidità dei risultati , per il suo effetto mirato nel trattamento delle adiposità localizzate e della cellulite e per la capacità di preservare l’integrità della massa magra e l’elasticità cutanea.
La base scientifica su cui si basa questa dieta sono gli studi del Prof. George L. Blackburn (scuola di medicina dell’Università di Harvard), il quale ha studiato gli effetti biochimici, metabolici e psicologici del digiuno. Il principio scientifico alla base del dimagrimento rapido e localizzato è semplice: il ridotto contributo calorico dei carboidrati e dei grassi obbliga l’organismo ad utilizzare come fonte di energia i propri grassi di deposito che per essere utilizzati devono essere prima trasformati in corpi chetonici, innescando la chetosi, termine con il quale si fa riferimento ad un accumulo di corpi chetonici nel sangue; Il cervello rappresenta l’organo che per primo si adatta all’utilizzo di questi metaboliti e proprio grazie a questa caratteristica la dieta procede in assenza di fame ed in pieno benessere psicofisico. Tale fenomeno si verifica anche quando un soggetto pratica il digiuno.
Nel 1973, il Prof. Blackburn definisce con precisione il fabbisogno di proteine necessario a conservare la massa magra nel corso del digiuno. Blackburn si rese conto che ingerendo proteine ad alto valore biologico e di rapida assimilazione, sempre escludendo i carboidrati, si evita la perdita di muscolo. È così che le sue ricerche portano alla nascita della dieta proteica (DP).
Nelle fasi iniziali della dieta proteica tali richieste vengono raggiunte utilizzando alimenti proteici speciali, ovvero appositamente creati per rispettatre le indicazioni nutrizionali necessarie, da abbinare ad una buona idratazione e supplementazione di vitamine e sali minerali.
La qualità delle proteine presenti nei prodotti proteici speciali deve essere rigorosamente controllata e definita da un indice chimico (garante del tenore in aminoacidi essenziali) e da un indice di buona digeribilità.
L’ apporto proteico va personalizzato per tutelare la massa magra del soggetto, evitando che venga compromessa dal catabolismo proteico. In questo modo si scongiura inoltre ogni eccesso proteico( caratteristico dei regimi iperproteici tipo dieta Dukan) garantendo l’equilibrio azotato e permettendo di non soffrire la fame grazie al costante stato di chetosi controllata .
Il basso apporto glucidico-lipidico durante la prima fase del protocollo fa scattare il catabolismo dei trigliceridi ( si attinge alle riserve di massa grassa del soggetto) per giungere così, in circa 72 ore, alla formazione di corpi chetonici, che possiedono interessanti proprietà anoressigene e psicostimolanti.
Nella dieta proteica è tuttavia necessario un modesto apporto giornaliero di carboidrati a basso indice glicemico, in grado di richiamare in circolo solo piccole quantità di insulina dalle insule pancreatiche di Langherans . Tale piccola quantità di glicidi svolge alcune importanti azioni metaboliche : evita l’abbassamento delle metabolismo basale, favorisce la ritenzione di sodio e potassio, impedisce l’accumulo di corpi chetonici , permette alle cellule glicodipendenti come i globuli rossi di avere sempre una fonte di energia , aumenta la performance dell’organismo.
La dieta proteica non va considerata come uno stile di vita ma come un mezzo per perdere bene ed in maniera equilibrata i chili in eccesso.
Vantaggi della dieta proteica
Risultati veloci e duraturi :dimagrire con la diete classiche per molti è un’ impresa difficile , il calo del peso avviene molto lentamente ; è necessario pesare e dosare gli alimenti e risulta spesso non facile seguire le norme dietetiche se si è fuori casa.
Scomparsa della fame :le sostanze prodotte naturalmente dal nostro organismo in seguito al consumo dei grassi di riserva e l’effetto saziante delle proteine , fanno scomparire dopo 48-72 ore la spiacevole sensazione di fame che si accompagna alle diete ipocaloriche classiche.
Protezione della massa muscolare.Le vostre proteine di riserva (muscolo) non vengono utilizzate come nelle altre diete poichè gli integratori proteici di alta qualità contengono proteine ad alto valore biologico e soddisfano il fabbisogno giornaliero.
Il corretto svolgimento di una dieta proteica prevede sempre la supervisione di personale sanitario (dietologi, nutrizionisti) opportunamente formato a seguire i pazienti attraverso le varie fasi al fine di raggiungere in maniera duratura gli obiettivi prefissati senza andare incontro ad eventuali effetti collaterali.
Prima di intraprendere la dieta è necessario un’accurata consulenza nutrizionale che prevede
- Un’anamnesi minuziosa
- valutazione di alcuni esami ematochimici per escludere eventuali controindicazioni
- Valutazione del peso, del BMI, della massa grassa, massa magra, stato di idratazione, metabolismo basale. Tali dati sono indispensabili per pianificare correttamente il programma dietetico mirato al raggiungimanto del peso ideale .
Solo se lo stato di salute del paziente non evidenzia controindicazioni si procede all’ attuazione
della dieta proteica che prevede essenzialmente 4 fasi
1 fase : dimagrimento con alimentazione aminoacidica, semplice da praticare e seguire per 10, meglio 20 giorni.E’ sempre consigliabile quando è possibile .
2 fase : alimentazione proteica
il 2 passo oltre ad essere successivo al primo, può anche essere utilizzato come primo approccio con quei pazienti non disponibili e/o quelli che per la loro socialità non possono seguire scupolosante l’alimentazione aminoacidica.
ll dimagrimento in fase 2 è un pò piu lento perchè , sebbene la restrizione in glucidi sia altretanto stretta , la razione calorica è un pò superiore. Essendo un pò piu conviviale la 2 fase può essere seguita piu a lungo. Sarebbe bene non ridurla mai a meno di 20 giorni
3 fase: alimentazione con carboidrati
Prevede la reintroduzione progressiva dei carboidrati consentendo una maggiore socializzazione nei pasti.
4 fase : alimentazione completa . Questo step ha lo scopo di :
-rafforzare le nuove abitudini
-confermare un’alimentazione sana ed equibrata.
-favorire l’attività motoria
-conservare una colazione aminoacidica
5 Fase o Fase di mantenimento : alimentazione definitiva.
È il momento più importante della dieta, anche se sembra ben lontana dalla dieta «pura e dura», poiché è in questa fase, che può durare diversi mesi o addirittura un anno, che si pongono le basi profonde e necessarie per il cambiamento di abitudini alimentari e di stili di vita.
Durante questa fase sarà compito dello specialista focalizzare l’attenzione del paziente su tre aspetti :
- Dietetico : diminuzione dei lipidi, aumento dei glucidi a indice glicemico basso.
- Metabolico : esercizio fisico regolare per il sostegno dalla lipolisi, il mantenimento della massa magra (massa muscolare) e, di conseguenza, l’aumento del dispendio energetico a riposo.
- Comportamentale : in modo da passare da uno stadio puramente cognitivo (so cosa fare) a uno stadio attivo (faccio ciò che c’è da fare), poi ad uno stadio più «naturale» (capacità di ascoltare il corpo, di riconoscerne i segnali e di sapere subito cosa è bene fare, senza doverci pensare).
Per concludere, la dieta proteica costituisce un’arma efficace nelle mani dello specialista in nutrizione per la cura del sovrappeso. E’uno strumento gratificante e molto incoraggiante all’inizio poiché toglie la sensazione di fame e diminuisce la massa grassa.
Resta tuttavia un mezzo temporaneo, da utilizzare per un periodo breve, e non cambiano nulla nel lavoro di fondo globale da compiere per modificare in modo durevole la propria figura.
SOLFITI
Cosa sono i solfiti, dove si trovano e perchè è meglio evitarli
I Solfiti sono sostanze usate come conservanti fin dall’antichità; i Romani e gli antichi Egizi impiegavano il biossido di zolfo per ripulire dai batteri i tini in cui fermentava il vino. Tuttavia il loro utilizzo è divenuto imponente solo dal secolo scorso in concomitanza con le nuove esigenze alimentari dettate dallo sviluppo industriale. Solfiti e derivati vengono oggi utilizzati in grande quantità in numerosissimi cibi allo scopo di mantenere la loro colorazione naturale, impedire la crescita dei microrganismi, ottenere lo sbiancamento dove necessario e perfino nella produzione di cellophane per i cibi confezionati; ancora per prevenire la ruggine e le incrostazioni delle caldaie; sono inoltre utilizzati nei farmaci per prolungarne l’attività terapeutica. Possono quindi essere una fonte importante di solfiti: il vino e le bevande alcoliche, i prodotti da forno come il pane, i biscotti, i crackers, la frutta secca, le marmellate e le gelatine, gli sciroppi, i succhi di frutta, il pesce, i crostacei, i molluschi, gli hotdog, le conserve specie sottospirito, le patate e i prodotti derivati come patatine surgelate, purea, chips, le conserve di pomodoro, le caramelle, le merendine confezionate, alcuni farmaci.
Attenzione alle sigle sulle etichette dei cibi: E220, E221, E222, E223, E224, E225, E226, E227 indicano la presenza di solfiti o derivati nell’alimento.
Intolleranza da solfiti. Una persona può sviluppare sensibilità ai solfiti in qualsiasi momento della sua vita
Negli individui sani, alle dosi comunemente impiegate nell’industria alimentare, l’anidride solforosa è considerata un additivo sicuro; si tratta infatti di un composto naturale prodotto anche dal nostro organismo durante il metabolismo di alcuni amminoacidi e facilmente inattivato dai sistemi di detossificazione endogeni. Nonostante questa sicurezza d’uso l’anidride solforosa ed i solfiti possono arrecare problemi, talvolta gravi, alle persone predisposte. Il contatto dei solfiti alimentari con l’acidità gastrica genera una certa quantità di anidride solforosa che rappresenta uno dei gas più efficaci nell’indurre attacchi di broncospasmo nei soggetti sensibili. Sono particolarmente esposti al rischio di subire questo genere di reazioni anche le persone allergiche all’aspirina. In soggetti predispsosti, anche quantitativi modesti, possono scatenare serie conseguenze. Purtroppo è molto difficile stabilire quanti solfiti ingeriamo o inaliamo; per legge non è obbligatorio indicare la loro presenza se il quantitativo è inferiore a 10 mg al kg o litro. Secondo l’OMS il limite giornaliero totale di solfiti per l’organismo umano è, a seconda del peso, tra i 40 e i 60 mg al giorno ( 0.7 mg per KG di peso orporeo ). Occhio all’etichetta! Tutto ciò rende fondamentatle la conoscenza preventiva della tollerabilità o meno a questi conservanti.
Le conseguenze sulla nostra salute
Il consumo di solfiti è generalmente innocuo, eccetto per i soggetti allergici, asmatici o privi degli enzimi necessari a metabolizzarli. La Food and Drug Administration stima che una persona su 100 è sensibile ai solfiti ed il 5% di queste soffre di asma. Negli individui sensibili i solfiti possono: Causare reazioni allergiche ed allergie con manifestazioni respiratorie anche gravi come riniti, eczemi, asma, orticaria, dissenteria. Provocare alterazioni vitaminiche: l’anidride solforosa ed i solfiti distruggono la tiamina e la cianocobalamina (vit. del gruppo B: B1e B12). Appesantire il nostro sistema detossificante con conseguenti emicranie, anche intense. Interagire con farmaci cortisonici.
Un test genetico per scoprire l’intolleranza ai solfiti
E’ possibile testare la propria sensibilità ai solfiti attraverso un test genetico che analizza la presenza di mutazioni a carico di due geni coinvolti nell’attività di detossificazione dei solfiti:il gene SUOX (solfito ossidasi) ed il gene CBS. In caso di SUOX e CBS alterati andrebbero evitati, oltre ai cibi con solfiti, gli alimenti ricchi in zolfo, gli integratori come GSH, MSM, NAC, nonchè monitorati con molta cautela alcuni farmaci utilizzati come antipertensivi, antibiotici o chelanti. Il test non è invasivo o doloroso: prevede infatti il semplice prelievo di saliva.
Mal di testa da vino: responsabili i solfiti?
„Contiene solfiti”. Queste due semplici parole, riportate per legge sulle etichette di moltissimi vini, generano curiosità e preoccupazione. L’indicazione „contiene solfiti” non è un segnale di pericolo generico, ma un avviso per quelli che, a causa di intolleranza, devono evitare accuratamente l’assunzione di queste sostanze. L’avvertenza è necessaria perché, per qualche strana e sospetta normativa europea, il vino (come le altre bevande alcoliche) è escluso dal rigidissimo obbligo di indicare gli ingredienti sull’etichetta. In tutti gli altri prodotti contenenti SO2, l’etichetta parla da sé. Con il termine „solfiti” si intendono il diossido di zolfo (SO2, detto anche anidride solforosa) e i sali formatisi dall’acido solforico ovvero sodio solfito e potassio metasolfito. La SO2 è un componente naturale del vino. I microorganismi responsabili della fermentazione, i lieviti, ne producono una quantità che varia a seconda della specie e si ritrova poi nel prodotto finale. Tuttavia, la maggior parte dei solfiti presenti oggi nei vini non è prodotta durante la fermentazione, ma essi vengono aggiunti sotto forma di polveri in varie fasi del processo di vinificazione. L’anidride solforosa è un conservante ampiamente utilizzato nella vinificazione per le sue proprietà antiossidanti, antibatteriche e per la capacità di impedire l’ ulteriore fermentazione del vino che lo trasformerebbe in aceto ed assicurare il mantenimento delle caratteristiche tipiche del vino : corpo, colore (senza solfiti il vino bianco diventerebbe bruno) e profumo. La quantità di solfiti utilizzati nel vino è regolamentata in tutto il mondo. Nella UE i livelli massimi di biossido di zolfo che un vino può contenere sono in genere: 160 mg per il vino rosso; 210 mg per il vino bianco fermo; da 200 a 300 mg per i bianchi mossi e 400 mg per i vini dolci,sempre espressi per litro. I livelli permessi differiscono per un nonnulla negli Stati Uniti, in Australia e nel resto del mondo. Lasciando ossigenare il vino si elimina fino al 30-40% della SO2. Visto che i solfiti sono una componente naturale di qualsiasi vino, non esistono vini senza solfiti. Esistono però vini prodotti senza aggiunta di solfiti (che ne contengono fino a 10-15 volte di meno). Per quanto riguarda i vini biologici, il contenuto massimo ammesso di SO2 è solo di un terzo inferiore a quello dei vini normali, il che permette tranquillamente a chi li produce di utilizzare solfiti (cioè conservanti).
CAFFEINA
Una tazzina di caffè è per noi italiani un’abitudine a cui difficilmente possiamo rinunciare. Ma è veramente salutare? E lo è per tutti?
La caffeina è una sostanza naturale di origine vegetale (un alcaloide), che si trova in diverse piante come i chicchi di caffé e i semi di cacao, le foglie di tè, le bacche di guaranà e le noci di cola, e che viene utilizzata in barrette dietetiche e bevande energizzanti, prodotti erboristici analgesici, cosmetici anticellulite,nonché in molti altre specialità farmaceutiche acquistabili senza ricetta medica. Agisce come pesticida naturale, proteggendo le piante dagli insetti che si nutrono di loro. La caffeina fu identificata per la prima volta nel caffè nel 1820 da un giovane medico tedesco: Ferdinand Runge. Secondo un’antica leggenda furono i monaci sufisti dello Yemen i primi a scoprire nel XV sec. gli effetti delle bevande contenenti caffeina per tenersi svegli durante le ore di preghiera. Da allora la pausa per il caffè è diventata un’abitudine per svegliarsi e ricaricare le pile.
Metabolismo della caffeina
La caffeina è bene assorbita per via orale e livelli significativi della sostanza si rinvengono nel plasma nei 30 minuti successivi alla sua assunzione, mentre il picco plasmatico si raggiunge dopo due ore dall’inizio dell’assorbimento, che si completa nell’arco di 90 minuti (Blanchard and Sawers, 1983). La caffeina ha un volume apparente di distribuzione (Vd) di circa 1.06 l/kg (Lelo et al., 1986), il che implica una sua ripartizione uniforme in tutta l’acqua corporea, tanto che la caffeina, dopo assorbimento completo, si ritrova in concentrazioni simili in tutti i distretti dell’organismo, compreso l’encefalo. La caffeina, inoltre, è in grado di attraversare liberamente la placenta e di pervenire al feto, nonchè di accumularsi nel latte materno (Oo et al., 1995). La caffeina subisce un esteso metabolismo epatico di primo passaggio, come dimostrato dal fatto che solamente il 10% del farmaco perviene ai reni senza aver subito modificazioni (Butler et al., 1989). L’emivita plasmatica della caffeina è di circa 3-5 ore con valori variabili a seconda del soggetto considerato. Un elevato valore di emivita plasmatica è, infatti, riscontrabile nei bambini (Pons et al., 1988), verosimilmente a causa dello sviluppo incompleto degli enzimi metabolici epatici, e nelle donne in stato di gravidanza, dove esiste un equilibrio di distribuzione con il feto (Khanna and Somani, 1984). La gravidanza rallenta il tempo nel quale la caffeina viene metabolizzata e una donna incinta di solito mantiene valori di caffeina per un tempo più lungo. Al contrario, l’emivita plasmatica della caffeina è ridotta nei fumatori, poichè i prodotti di combustione del tabacco inducono gli enzimi epatici che metabolizzano le xantine (Zevin and Benowitz, 1999). La capacità della caffeina di aumentare la soglia di allerta e di sostenere l’attenzione più a lungo è stata ben documentata, e il suo principale modo di agire come stimolante del sistema nervoso centrale è dato dalla sua azione di antagonista dell’adenosina. L’adenosina è una sostanza chimica, prodotta in modo naturale, che agisce da messaggero nella regolazione dell’attività cerebrale modulando lo stato di veglia e di sonno (è un “segnale di stanchezza”). La caffeina blocca i recettori per l’adenosina presenti nel tessuto nervoso, in particolare nel cervello, mantenendo lo stato di veglia. Attraverso questo meccanismo la caffeina può potenziare la capacità di realizzare uno sforzo fisico e mentale, prima che si presenti la stanchezza. Il blocco di recettori dell’adenosina può inoltre essere responsabile della costrizione dei vasi sanguigni, che allevia la pressione dell’emicrania e del mal di testa, e spiega perché molti analgesici contengono caffeina. Ulteriori funzioni dimostrate sono :aumento della sintesi acida a livello gastrico, aumento della diuresi e, se applicata sulla cute tramite cosmetici specifici (creme, gel e patch), risulta utile nel trattamento delle adiposità localizzate. Come poche altre sostanze inoltre, ha la capacità di passare rapidamente la barriera emato-encefalica, nonché di attraversare la placenta ed essere presente nel latte materno. La caffeina è anche un inibitore della cAMP-PDE (AMP ciclico fosfodiesterasi) che converte il cAMP (adenosinmonofosfato ciclico) nella sua forma aciclica (cAMP –> AMP). Poiché il cAMP è secondo messaggero per l’azione dell’adrenalina, ridurre l’attività della fosfodiesterasi significa prolungare l’effetto di adrenalina/epinefrina e sostanze simili come anfetamina, metanfetamina e metilfenidato .
Caffeina e Salute
La risposta all’assunzione di caffeina è comunque estremamente variabile da persona a persona, e in passato numerose ricerche hanno dimostrato che questa variabilità ha in buona parte delle basi genetiche. In un articolo pubblicato sulla rivista Psychopharmacology viene presentata una rassegna delle principali scoperte fatte negli ultimi anni per quanto riguarda le relazioni tra DNA e consumo/effetti della caffeina. E’ stata esaminata gran parte della letteratura scientifica sull’argomento, che ha permesso di evidenziare quanta genetica ci sia realmente dietro al nostro rapporto con la caffeina, oltre a ricordare tutte le varianti genetiche associate alla risposta a questo alcaloide, nel breve e nel lungo periodo.
Il modo in cui rispondiamo alla caffeina è davvero scritto nei nostri geni? Beh, sembrerebbe proprio di sì. Per valutare quanto una caratteristica sia dipendente dal DNA e non, ad esempio, da fattori ambientali, vengono realizzati i cosiddetti twin studies, ossia delle ricerche dove vengono messe a confronto coppie di gemelli monozigoti con coppie di gemelli eterozigoti: il vantaggio è che all’interno di entrambe le coppie l’influenza ambientale è la stessa, ma soltanto i monozigoti sono identici anche nel patrimonio genetico. Applicando a questi studi dei modelli matematici, è possibile calcolare l’ereditabilità di un certo tratto, ad esempio la risposta alla caffeina: è un valore che va da 0 a 1 ed è un buon indicatore di quanto la variabilità che si osserva per quel particolare comportamento è spiegabile geneticamente. Ebbene, tutti gli studi effettuati nel corso degli ultimi anni concordano nell’assegnare un valore di ereditabilità medio-alto (compreso tra 0,30 e 0,60) a diversi tratti legati alla caffeina, come ad esempio il consumo giornaliero, la tossicità, la tolleranza, le crisi di astinenza e l’insonnia. Addirittura, il consumo particolarmente elevato di caffeina ha mostrato un valore di ereditabilità pari a 0,77: i bevitori di caffè più accaniti (più di 625 milligrammi al giorno) sembrerebbero quindi subire l’influenza genetica molto più dei consumatori moderati.
Una volta appurato che il modo in cui la caffeina produce i suoi effetti sull’organismo è dipendente in gran parte dal codice genetico, sono stati presi in esame i singoli geni, per trovare quelli che, variando, possono modificare questi effetti. L’isoenzima 1A2 del citocromo P-450 è uno di questi. Ha il compito di metabolizzare la caffeina, trasformandola in dimetilxantina: in questo modo, la molecola viene smaltita. Il gene che codifica per questo enzima, CYP1A2, presenta sulla sua sequenza un polimorfismo importante, cioè un punto di variazione dove una base azotata piuttosto che un’altra possono fare la differenza.Una sostituzione di una C al posto di una A (CYP1A2*1F) in posizione -163 del gene CYP1A2, diminuisce l’attività enzimatica alterando il metabolismo della caffeina. I portatori dell’allele CYP1A2*1A (-163A) sono dei metabolizzatori “rapidi”, mentre gli individui omozigoti per la variante CYP1A2*1F sono dei metabolizzatori “lenti”. Il protrarsi nel circolo sanguigno della caffeina prolunga tutti gli effetti psicostimolanti della sostanza (tachicardia, tremore, insonnia, ansia e vampate di calore) e aumenta il rischio di infarto al miocardio. E’ stato osservato, ad esempio, che fumatori con genotipo A/A (vale a dire che in quella posizione hanno una A sia nell’allele paterno che nell’allele materno) sono in grado di metabolizzare la caffeina molto più velocemente. Se invece andiamo a guardare gli effetti della caffeina sul lungo termine, pare che i genotipi C/C siano i più propensi ad avere infarti non fatali, in seguito al consumo di caffeina. In particolare, in un importante studio del 2006 pubblicato nel Journal of the American Medical Association , Cornelis et al. hanno monitorato circa 4000 individui di cui 2000 reduci da infarto del miocardio; considerando altri fattori variabili come il consumo del cibo, l’attività fisica o lo stato socio economico, la loro ricerca ha evidenziato come le persone a metabolizzazione lenta di caffeina secondo il gene CYP1A2, erano associate ad un alto rischio di infarto , rischio che aumenta, anche in base al numero di tazzine consumate. Il pericolo di infarto cresce del 36% nei metabolizzatori lenti che bevono due o tre tazze di caffè al giorno”, concludono i ricercatori, e si arriva fino al 64% per i forti consumatori di caffè, ossia coloro che ne consumano quattro o più tazze al dì. E il rischio è doppio se di età inferiore a 59 anni, quadruplo se minori di 50″. Al contrario, chi ha la versione del gene associata a rapido metabolismo della caffeina risulta protetto dal rischio infarto, sempre che non si abusi di caffè. Inoltre nell’Aprile del 2005 Sata et al. hanno pubblicato una studio sul Journal of Molecular Human Reproduction,nel quale si metteva in relazione la caffeina con la fertilità e la gravidanza. Questo studio ha dimostrato che le donne con il gene codificante il metabolismo lento per caffeina hanno un rischio maggiore di abortire e di ridurre la fertilità se consumano da una a tre tazze di caffè al giorno,mentre le donne a metabolizzazione veloce non corrono questi rischi pur consumando le stesse quantità di caffè. Altri polimorfismi interessanti sono stati individuati nei geni codificanti per i recettori di adenosina e dopamina, entrambi coinvolti nella risposta alla caffeina: si è visto che particolari genotipi possono provocare più facilmente stati di ansia nel consumatore, mentre altri sono legati ai disturbi del sonno. La risposta alla caffeina è legata a doppio filo con alcune patologie neurodegenerative: lo stesso recettore per l’adenosina è associato ad esempio al morbo di Parkinson e alla malattia di Huntington. Comprendere le modalità attraverso cui il nostro DNA ci rende più o meno sensibili agli effetti della caffeina ci aiuterà probabilmente anche a studiare nuove cure per queste malattie.
GENETICA
La caffeina è metabolizzata nell’organismo dall’enzima Citocromo p450 1A2 (CYP1A2).
Il citocromo CYP1A2, uno dei membri della famiglia dei citocromi P-450, è un enzima del fegato altamente polimorfico ed e’ responsabile del metabolismo di circa il 5-10% dei farmaci attualmente in uso clinico, tra cui i più importanti sono alcune clozapine, imipramine, caffeine, fluvoxamine, paracetamolo, phenacetina, theophyllina e tacrine. CYP1A2 inoltre è coinvolto nell’attivazione metabolica di alcune amine aromatiche e quindi espleta un ruolo primario nella carcinogenesi da tossine chimiche, come quelle trovate nel fumo da sigaretta. Alcuni studi sul metabolismo CYP1A2-dipendente della caffeina o phenicetina hanno dimostrato che quest’enzima è espresso a vari livelli nel fegato tra differenti individui, suggerendo un controllo polimorfico dell’attivita’ enzimatica. Esiste una considerevole variabilità nell’attivita’ metabolica del CYP1A2 dovuta a fattori genetici, ambientali e ad interazioni tra farmaci. CYP1A2 puo’ essere sia indotto che inibito da molti farmaci e interazioni farmaco-cibo.
Test genetici e Polimorfismi investigati:
Esistono test genetici che consentono di rivelare se una persona è un metabolizzatore lento o veloce della caffeina. L’indagine genetica attualmente in uso consente di genotipizzare 3 alleli del gene CYP1A2, che rappresentano oltre il 98% delle varianti alleliche conosciute per questo gene. Sono due le varianti del gene che riguardano la metabolizzazione della caffeina nell’organismo. La variante allelica CYP1A2*1A codifica l’enzima che metabolizza la caffeina in maniera rapida, mentre l’allele CYP1A2*1F quello a metabolizzazione lenta. Gli individui che posseggono due copie dell’allele CYP1A2*1A sono metabolizzatori veloci della caffeina, mentre le persone che presentano anche solo un allele del CYP1A2*1F sono metabolizzatori lenti.
Genotipi risultanti dal test:
- Omozigote CYP1A2*1F Metabolizzatore lento
- Eterozigote CYP1A2*1F Metabolizzatore lento
- Omozigote CYP1A2*1A Metabolizzatore rapido
Gli individui che metabolizzano lentamente la caffeina devono monitorare la dose quotidiana. Se la consumano in maniera eccessiva infatti (più di 2 o 3 tazze di caffè o 200 mg di caffeina al giorno) possono avere effetti negativi sul loro organismo (tachicardia, tremore, insonnia, ansia e vampate di calore) incluso un aumentato rischio di infarto.
Chi deve utilizzare il test?
Tutti i grandi consumatori di caffè o di bevande,alimenti contenenti caffeina, chiunque voglia trarre vantaggio dai più recenti studi scientifici che indicano come migliorare sensibilmente lo stile di vita e mantenersi in buona salute, le donne con abortività ricorrente o problemi di infertilità i cui esami specialistici diagnostici a riguardo non hanno rilevato la causa.
CAFFEINA: COME MONITORARE LA DOSE
Contrariamente a quanto si crede, la quantità di caffeina non dipende dal volume di caffè bevuto. I dati medi di contenuto di caffeina sono: per una tazza o una lattina di tè circa 20-30 mg di caffeina, una di cioccolata 10 mg, una lattina di Coca-Cola normale, Diet o di Pepsi circa 40 mg e una Red Bull 80 mg. Il contenuto di caffeina in una tazza di caffè può dipendere da molti fattori, per esempio:
- a) il metodo di preparazione
- b) la miscela usata
- c) la quantità di caffè usata
Per quanto riguarda la miscela, una miscela robusta ha un contenuto 2,5 volte più alto di caffeina di una miscela arabica.
Contenuti di caffeina di alcune bevande o alimenti selezionati:
PRODOTTO | QUANTITÀ | CAFFEINA (mg) |
---|---|---|
Espresso | Una tazzina | 40 |
Caffè solubile | Una tazza | 95 |
Caffè “decaffeinato” | Una tazza | 5 |
Caffè americano | 100ml | 95-125 |
Caffè fatto con Moka | 35-50ml | 60-120 |
Tè Lipton | Una tazza | 40 |
Coca Cola | 1 lattina | 85 |
Cacao | 100g | 100mg |
Red Bull | 100ml | 30mg |
Rischi/Benefici
QUANTITÀ DI CAFFEINA ASSUNTA | RISCHI/BENEFICI PER I METABOLIZZATORI LENTI |
---|---|
1-2 tazze (200 mg) al giorno | Nessun aumento di rischio per infarto |
2-3 tazze (300 mg) al giorno | Aumento del rischio di infarto del 36% |
4 tazze o più al giorno | Aumento del rischio di infarto del 64% |
4 tazze o più al giorno per persone sotto i 50 anni | Rischio aumentato di 4 volte per infarto |
100 mg al giorno (donne) | Aumento del rischio aborti ricorrenti e di riduzione della fertilità |
QUANTITÀ DI CAFFEINA ASSUNTA | RISCHI/BENEFICI PER METABOLIZZATORI RAPIDI |
---|---|
2-3 tazze (300 mg)/al giorno | Diminuzione del rischio di infarto del 22% |
100 mg/al giorno (donne) | Nessun aumento di rischio di abortività |
“Gli uomini sono come il caffè. I migliori sono carichi, caldi e possono tenerti su tutta la notte.”
(Susan Savannah)
NUTRIZIONE PERSONALIZZATA
AHIME’ LA DIETA!
Troppo spesso il significato di „dieta alimentare ” viene associato all’idea di privazione, digiuno, restrizione, insomma …Fame…!!! Uno degli aspetti più importanti di una dieta è la fattibilità, intesa come la tollerabilità a lungo termine della dieta stessa. Un piano alimentare non personalizzato potrebbe contenere cibi, piatti e combinazioni alimentari poco graditi che renderebbero la dieta molto difficile da seguire. Spesso capita di trovare tra gli alimenti cibi indesiderati, oppure che si gradiscono ma non nelle quantità desiderate. Altrettanto spesso capita che le quantità non siano sufficienti: ovvero la dieta non riesce a soddisfare il senso di sazietà di chi la segue. Questi concetti si esprimono secondo i principi della Sazietà e dell’Appetibilità, e sono importanti quanto le calorie giornaliere in un approccio veramente su misura, in una dieta veramente personalizzata.
SAZIETA’ E APPETIBILITA’
Ogni alimento sazia in modo diverso, a parità di calorie: chi programma una dieta personalizzata deve scegliere cibi a misura del soggetto, che massimizzino il senso di sazietà in modo tale da non fargli avvertire un eccessivo senso di fame, bestia nera di ogni dieta. L’appetibilità, invece, riguarda la fattibilità di una dieta personalizzata dal punto di vista psicologico e del gradimento. Questo concetto nasce dal fatto che ognuno di noi ha una fame „psicologica” dovuta alla necessità di soddisfare il bisogno di provare piacere dall’atto del mangiare. Questo piacere è proporzionale alla densità calorica dei cibi che durante una dieta viene naturalmente abbassato. Una dieta personalizzata ben fatta, dovrebbe evitare di far scadere l’appetibilità sotto un limite di guardia, che comporterebbe l’accumulo a livello psicologico (e spesso inconscio) della voglia di gratificarsi, che quando presenta il conto, è spesso devastante. Una dieta su misura dovrebbe essere avvertita dal soggetto come una alimentazione abbastanza normale, in modo tale che egli non debba mettere in campo una forza di volontà eccessiva per seguirla. Anche la durezza della dieta dovrebbe essere personalizzata in base alle capacità del soggetto di tollerare la restrizione calorica.
COME IMPOSTARE UNA DIETA PERSONALIZZATA
Da quanto detto è chiaro che un approccio personalizzato all’alimentazione difficilmente può essere proposto senza un acculturamento del soggetto e senza una collaborazione continuativa e quantitativamente (in termini di tempo) importante con il consulente (nutrizionista, dietologo ) che propone la dieta. Molti dietologi forniscono diete su misura con una certa possibilità di scelta, ma raramente il soggetto è libero di scegliere tra una gamma molto varia di cibi, e soprattutto, il soggetto non viene acculturato, cioè non viene informato riguardo i criteri di scelta dei vari cibi.
Dunque, chi vuole proporre una dieta personalizzata, che si sposi perfettamente con le esigenze del cliente, e abbia quindi caratteristiche nutrizionali (calorie e ripartizione tra i macronutrienti), di sazietà e di appetibilità ideali, deve necessariamente prevedere una „fase di acculturamento” del cliente, durante la quale egli deve comprendere i criteri di scelta dei vari cibi, in modo tale da impostare, a step successivi, una dieta personalizzata che possa essere seguita a lungo termine.
Successivamente, il cliente deve continuare l’approccio educativo in modo tale da capire come può modificare questa dieta personalizzata, che inizialmente può essere anche piuttosto rigida, così da ampliare la scelta dei cibi in base ai propri gusti, rendendo la dieta sempre meno difficile da seguire e sempre più disegnata su misura del soggetto. Alla fine del percorso, il cliente dovrebbe essere in grado di impostare da solo una dieta di mantenimento, che lo accompagnerà per tutta la vita, senza avere più vincoli, se non saltuari, con lo specialista, che parteciperà sempre meno alla composizione della dieta, ma interverrà solo per chiarire i dubbi e correggere gli errori.
In definitiva, possiamo dire che la migliore dieta personalizzata è quella che costruiamo noi stessi!
LATTOSIO
Intolleranza al lattosio
L’intolleranza al lattosio, la più comune intolleranza enzimatica ,deriva dall’incapcità di digerire il lattosio, lo zucchero naturale del latte . Ne soffre circa il 70% della popolazione mondiale. Il 30-40 per cento circa della popolazione italiana ne è affetta, anche se non tutti i pazienti manifestano sintomi. Esistono due forme di intolleranza al lattosio : congenita e acquisita. La prima si può manifestare nel lattante fin dalla nascita oppure, più tardivamente nell’adulto. La forma acquisita è invece secondaria ad altre patologie, acute (salmonellosi, colera enteriti acute) o croniche intestinali (celiachia, morbo di Crohn, linfomi, enteriti attiniche, sindrome dell’intestino irritabile). L’espressione e l’attività della lattasi iniziano a diminuire nella maggior parte delle persone intorno ai 2 anni di vita con una riduzione progressiva geneticamente programmata, ma i sintomi di intolleranza al lattosio raramente si sviluppano prima dei 6 anni.
Cos’è il lattosio?
E’ un disaccaride ossia uno zucchero costituito dall’unione di due zuccheri semplici: glucosio e galattosio. La sua digestione non avviene nello stomaco ma nell’intestino tenue ad opera di un enzima, nota come lattasi, prodotta sempre in tale regione. Detto enzima scinde il lattosio nei due zuccheri semplici che lo compongono: il glucosio ed il galattosio. Successivamente glucosio e galattosio vengono assorbiti dalla mucosa della parete del tenue e passano nel sangue. Nei casi in cui la lattasi è deficitaria, il lattosio non viene completamente digerito e quindi assorbito e di conseguenza si accumula nell’intestino tenue dove richiama liquidi che determinano diarrea. Successivamente passa nel colon che è popolato da una cospicua flora batterica. Per effetto di tali batteri il lattosio fermenta (processo di ossidazione dei carboidrati in ambienti privi di ossigeno ad opera di batteri) provocando sviluppo di gas, per lo più idrogeno ed acido lattico, e quindi flatulenze e feci acide.
GENETICA
In origine nella specie umana, come in tutti i mammiferi, la lattasi veniva prodotta nel nostro corpo solo all’inizio della vita (per consentire l’alimentazione col latte materno) e con l’età adulta diminuiva fino alla scomparsa.Nella maggior parte degli adulti di tutto il mondo, la riduzione dell’attività dell’enzima lattasi inizia tra i 2 ed i 3 anni e si completa tra i 5 ed i 10 anni d’età. Esiste una certa percentuale della popolazione che conserva anche in età adulta la capacità di digerire il lattosio perché continua a sintetizzare lattasi , mentre la restante parte della popolazione perde progressivamente negli anni tale capacità. La capacità di digerire il latte è frutto di una mutazione genetica. Il gene che determina la sintesi della lattasi è posizionato sul cromosoma 2.
Nel 90% dei casi l’intolleranza al lattosio è riconducibile in Europa a una mutazione del DNA
Un polimorfismo C/T nella posizione -13910, nella regione regolatrice del gene della lattasi, che se è presente in entrambe le copie del gene, può portare a una ridotta espressione di questo enzima nei microvilli dell’intestino tenue, quindi a una carenza di lattasi. Questa ridotta espressione fa sì che con il passare degli anni il lattosio sia digerito sempre meno. La trasmissione ereditaria di questo polimorfismo è autosomica recessiva, cioè solo chi ha entrambe le copie del gene mutate (omozigosi) è affetto da questo tipo di intolleranza. La prevalenza del genotipo C/C (“non persistenza” della lattasi ) è solo del 15% in Germania, mentre nei paesi dell’area mediterranea arriva fino al 50%. In Italia il 30 % circa delle persone presentano il genotipo “non persistenza” della lattasi essendo omozigoti wild type (C/C), il 60% sono eterozigoti (T/C), mentre è raro (10%) il genotipo “tolleranza” (omozigoti T/T). Fino ad alcuni anni fa per verificare l’intolleranza al lattosio veniva effettuato quasi esclusivamte il Breath test all’idrogeno (BTH). Questo test comporta un grande impegno temporale (circa 4 ore da trascorrere in clinica talvolta con manifestazioni gravose dopo l’ingestione del lattosio ed un’adeguata preparazione da parte del paziente nei giorni precedenti il test; nonostante questo alcune circostanze come patologie concomitanti , il fumo, l’assunzione, talvolta obbligata, di certi farmaci possono portare a falsi risutati positivi o negativi. Il test genetico, al contrario, risulta essere rapido, non invasivo e sopratutto fornisce risultati certi circa il rischio di sviluppare intolleranza al lattosio. Il test genetico per verificare la presenza di mutazione C/C prevede l’impiego di un tampone buccale per il prelievo della mucosa orale (dalla parete interna della guancia). Il difetto genetico, indagato con il test , consiste nella sostituzione di una timina (T) con una citosina (C) nella posizione -13910 della regione regolativa del gene della lattasi. Se questa mutazione è presente allo stato omozigote (C/C) si ha una totale deficienza dell’enzima lattasi con conseguente impossibilità di digerire il lattosio. Il test permette di discriminare chi ha entrambe le copie sane del gene (T/T), chi ne ha solo una sana (T/C) e chi le ha entrambe mutate (C/C).
Essere consapevoli della propria predisposizione genetica a particolari patologie permette di effettuare adeguati e tempestvi cambiamenti nel proprio stile di vita e di istituire efficaci azioni di prevenzione .
SINTOMI
I sintomi dell’intolleranza al lattosio sorgono perchè il latte non viene digerito a livello intestinale: i più comuni sono:
• Diarrea e feci acquose e non formate causata da un accumulo di lattosio nel tenue e impedisce alle feci di solidificarsi.
• Dolori e crampi all’addome accompagnati da gonfiore e tensione, causati dalla fermentazione del lattosio con degradando in gas (idrogeno) e acidi organici.
• Accentuazione della peristalsi intestinale (movimenti spontanei dell’intestino) con meteorismo e flatulenze.
Possibilità di sangue nelle feci e conseguente dimagrimento ed anemia.
La sintomatologia può manifestarsi in maniera violenta o contenuta a seconda degli alimenti che si associano al latte e/o suoi derivati. Se con il latte si consumano carboidrati lo svuotamento gastrico sarà rapido e quindi la sintomatologia sarà evidente. Se invece al latte si associano grassi lo svuotamento dello stomaco sarà lento e la sintomatologia molto contenuta.
La sintomatologia è dose dipendente: maggiore è la quantità di lattosio ingerita , più evidenti saranno i sintomi
Trattamento dell’intolleranza al lattosio: la dieta.
Dall’intolleranza al lattosio non si guarisce e non esiste alcun farmaco in grado di contrastare la riduzione della lattasi. Il trattamento perciò si basa essenzialmente su una dieta che preveda alimenti privi di lattosio o con un contenuto estremamente ridotto. Naturalmente poiché la soglia di lattosio tollerata varia da soggetto a soggetto la dieta va calibrata sul paziente.
Cosa mangiare?
Eliminare il lattosio dalla alimentazione non è però cosa semplice come potrebbe sembrare. Infatti il lattosio è presente non solo nel latte e derivati di qualsiasi provenienza (asina, capra, mucca, etc.) ma anche in molti prodotti commerciali in cui viene aggiunto in piccole percentuali per problemi di conservazione. Esempi sono : prodotti da forno come biscotti o merendine, cereali, margarine, surgelati, insaccati, farmaci, etc. Risulta pertanto particolarmente importante per coloro che soffrono di questa intolleranza prestare molta attenzione alle etichette che indicano la composizione degli alimenti. Quando non è possibile eliminare completamente il lattosio dalla dieta è necessario assumere compresse che contengono lattasi in vendita con vari nomi commerciali. E’ infine importante notare che la limitazione nella dieta dei prodotti caseari riduce fortemente l’assunzione di calcio ; pertanto è consigliabile, se non indispensabile, in special modo nei bambini e durante la menopausa, l’uso di appositi integratori o di prodotti fortificati. Un adeguato apporto di calcio risulta essenziale ai primi per un corretto sviluppo osseo e per le seconde per prevenire i problemi di osteoporosi.
OBESITÀ
EVOLUZIONE O INVOLUZIONE DELL’UOMO MODERNO?
L’obesità, anche quella infantile, è una condizione caratterizzata da un eccesiivo accumulo di grasso corporeo, in genere a causa di un’alimentazione scorretta e di una vita sedentaria. Alimentazione e attività fisica sono comportamenti fortemente influenzati da condizioni sociali, economiche e culturali. A livello psicologico l’obesità può stravolgere completamente la vita di una persona:chi è obeso spesso viene isolato e sottoposto ad una vera stigmatizzazione sociale che rende difficile la socialità.I bambini in particolare tendono spesso a sviluppare un rapporto difficile con il proprio corpo e con i propri coetanei con conseguente isolamento che spesso si traduce in un radicamento ulteriore di abitudini sedentarie. Inoltre chi è obeso in età infantile lo sarà con più probalilità anche da adulto. Obesità e sovrappeso sono fattori di rischio per malattie cardiovascolari, ictus, diabete, alcuni tumori (colorettale, della prostata, della mammella, dell’endometrio, malattie della colecisti osteoartrite, demenza. Che alla base dell’obesità ci siano geni specifici non deve offrire l’alibi per arrendersi ad un destino ineluttabile. Abbiamo un’arma fantastica per contrastarlo : la punta della nostra forchetta.
Perchè il tuo DNA non è il tuo destino…!
I geni non determinano da soli la malattia: funzionano solo se vengono attivati o espressi e la nutrizione riveste un ruolo decisivo nel determinare l’ espressione dei geni. Come ogni giardiniere sa i semi non diventano piante se non dispongono di un terreno ricco di sostanze nutritive , di acqua e di luce solare. Allo stesso modo i geni non si esperimono se non trovano un ambiente adeguato, Le nostre scelte alimentari hanno un impatto incredibile non solo sul nostro metabolismo , ma anche sull’iniziazione , promozione e persino sulla regressione della malattia , sulla nostra energia ed attività fisica , sul nostro benessere emozionale e mentale e sull’ambiente in cui viviamo.
Epigenetica è la scienza che studia l’influenza della nutrizione e dell’ambiente sul nostro DNA .
operaia o Regina ?…è il cibo che fa la differenza!
Dieta Sana -Dieta varia
Ciascun alimento contiene solo alcuni degli elementi indispensabili per stare in buona salute.
L’alimentazione equilibrata si basa su: Combinazione appropriata di alimenti (qualità) – Quantità adeguata per soddisfare il fabbisogno nutrizionale – Frequenza corretta giornaliera o settimanale
La nuova icona “My plate”, ( Il piatto Sano), della Harvard University con immediatezza e semplicità mostra come preparare il nostro pasto ideale in modo vario, sano, saziante per raggiungere e mantenere un peso che sia in grado di ridurre al minimo i rischi per la salute determinati da sovrappeso e obesità o da cattive abitudini alimentari.
Diete personalizzate
Ogni persona è un individuo unico! Le scoperte scientifiche nel campo della genetica hanno rivelato che Noi siamo diversi l’uno dall’altro tanto nell’aspetto esteriore quanto nei processi metabolici e fisiologici. Alla variabilità genetica, inoltre, si deve aggiungere la variabilità legata all’età, sesso, fasi della vita, eventuali patologie, livello di attività fisica. Pertanto nell’elaborazione di una dieta è indispensabile valutare tutte queste variabili senza trascurare le preferenze alimentari ed i ritmi di lavoro individuali. Misure antropometriche, bioimpedenziometriche ed bioumorali permetteranno poi di stabilire con precisione il metabolismo basale, la massa grassa, la massa magra e lo stato di idratazione al fine di elaborare un vero programma nutrizionale ad personam in situazioni fisiologiche e/o patologiche accertate.
- Obesità e sovrappeso
- Antiaging
- Malattie dismetaboliche: cardiopatie, diabete, insufficienza renale cronica, epatopatie, etc
- Malattie apparato digerente: RCU, Cronh, Colon irritabile, malassorbimenti da resezioni intestinale (SIC) o disbiosi (SIBO), allergie e intolleranze alimentari
- Tumori donna prevenzione primaria e secondaria
- Infertilità maschile e femminile
- Gravidanza e allattamento
- Infanzia ed età evolutiva
- Menopausa e Andropausa
- Sport e Fitness
ALLERGIE e INTOLLERANZE
Nei soggetti allergici e intolleranti una scrupolosa attenzione all’alimentazione può non solo alleviare i sintomi, ma svolgere anche una funzione terapeutica.
DIETE SPECIALI PER PERSONE SPECIALI
DIETA E FERTILITÀ
L’infertilità di coppia è un problema di vaste dimensioni . In Italia si calcola che ogni anno 60.000-80.000 nuove coppie si trovano ad affrontare problemi di infertilità ;esse rappresentano il 20-25% delle 300.000 nuove unioni (dati ISTAT). Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità una coppia è considerata infertile se nessuna gravidanza spontanea è sopraggiunta dopo 12 mesi di rapporti non protetti e mirati. Le cause dell’infertilità sono da ricondurre per il 35% a fattori femminili, per il 30% a fattori maschili, per il 20% a problemi di entrambi i partners e per un 15% a cause ignote. Un dato emergente è l’incremento dell’infertilità maschile e la ritardata età in cui le coppie, per esigenze economiche e professionali, decidono di procreare. Anche le mutate abitudini sessuali con la maggiore precocità e promiscuità nei rapporti , esponendo l’apparato riproduttivo maschile e femminile a molte forme di patologie flogistiche e infettive sessualmente trasmissibili, contribuiscono ad incrementare l’Infertilità. Nel maschio le principali cause di infertilità sono varicocele , infezione delle ghiandole accessorie, infertilità immunologica e oligozoospermia idiopatica.Si parla di infertilità idiopatica quando la qualità dello sperma è anormale e non è applicabile nessun altra diagnosi.Nella donna disturbi di ovulazione, malattia infiammatoria pelvica ed endometriosi sono le più comuni cause di infertilità.Numerosi studi hanno dimostrato che cambiamenti specifici nella dieta riescono a migliorare la qualità degli ovociti e degli spermatozoi.Ridurre lo stress ossidativo con l’assunzione di nutrienti e sostanze antiossidanti può migliorare le probabilità della coppia di concepire naturalmente o tramite riproduzione assistita.
La Dieta che migliora la Fertilità: i nutrienti necessari al concepimento.
Diete progettate per aumentare la fertilità naturale possono aiutare ad ottenere una gravidanza senza trattamenti invasivi o comunque ad aumentare le probabilità di successo con metotiche di fecondazione assistita. Numerosi studi hanno dimostrato che cambiamenti specifici nella dieta riescono a migliorare la qualità degli ovociti e degli spermatozoi. Gli antiossidanti che proteggono gli ovociti e gli spermatozoi dai radicali liberi possiamo trovarli negli alimenti.I mattoncini per costruire gli ormoni si trovano nel cibo che mangiamo. Come alcuni nutrienti possono incrementare la fertilità della coppia , allo stesso modo esistono alimenti e additivi chimici ed altre sostanze che sono dannose per la salute e fertilità.
La dieta per la fertilità ha lo scopo aiutare il tuo corpo nello sforzo riproduttivo.Include cibi ricchi di sostanze necessarie per la funzione ormonale, per la salute degli ovociti e degli spermatozoi, per migliorare il tuo metabolismo e preparare il corpo della futura mamma ad accogliere e sostenere lo sviluppo del feto dal momento del concepimento alla nascita.
Perchè seguire una dieta per la fertilità?
- Sai che esistono specifici nutrienti necessari al feto ancor prima che tu ti accorga di essere gravida?
- Sai che ciò che mangi influenza la salute degli ovociti e degli spermatozioi nei successivi 90 giorni?
- Sai che gli ormoni vengono sintetizzati a partire da ciò che intoduci con la dieta?
- Sai che il trattamento di scelta nella PCOS (sindrome dell’ovaio policistico) è la dieta?
- Sai che quello che non mangi è altrettanto importante di quello che mangi?
- Sai che la mancata ovulazione, la causa principale di infertilità nella donna, molte volte viene corretta con la dieta?
La dieta per la fertilità è qualcosa che ognuno può fare indipendentemente dal luogo, dal denaro, dall’età e dal tempo.
Tutti noi mangiamo. E allora perchè non mangiare in maniera da favorire la fertilità in maniera naturale?